Studiare e partecipare alle lezioni era già una forma di socialità: ascoltare un professore mi dava un senso di connessione
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Esperienza universitaria e aspettative iniziali
Quando mi sono iscritta alla facoltà di Filosofia alla Sapienza nel 2018, avevo aspettative piuttosto irrealistiche, soprattutto per quanto riguarda la socialità. Mi immaginavo un’esperienza accademica strutturata, un ambiente stimolante in cui le dinamiche sociali fossero più chiare e accessibili. In questo senso, il fatto che la mia facoltà fosse a Villa Mirafiori è stato un elemento positivo: è un luogo raccolto, con una sua atmosfera, e mi ha dato un senso di familiarità. È stato uno dei motivi per cui ho scelto proprio Filosofia.
Tuttavia, non avevo minimamente considerato le difficoltà burocratiche, organizzative e il fatto che entrare all’università significasse anche assumere delle responsabilità da adulta. Forse non ero ancora indipendente nel modo di pensare, o forse non avevo davvero capito cosa volesse dire confrontarsi con un sistema accademico in cui devi gestire tutto da sola. Questo passaggio non l’ho calibrato bene, ed è stato un trauma.
Lo studio e il mio stile di apprendimento
Dal punto di vista accademico, invece, l’esperienza è stata positiva. La modalità con cui vengono gestiti gli esami a Filosofia mi ha aiutata molto: al liceo avevo difficoltà con i compiti scritti, soprattutto per la gestione del tempo e dell’ansia, mentre all’università ho trovato molti esami orali, che erano più adatti al mio stile di apprendimento. Inoltre, studiavo materie che mi piacevano, quindi la motivazione non è mai stata un problema.
Per me è essenziale avere una routine chiara e strutturata. Se riesco a organizzare il sistema e la cronologia dello studio, sto tranquilla. Il problema sorge quando perdo questo equilibrio: con il COVID-19, per esempio, tutto il mio ritmo è saltato, e senza una struttura esterna a mantenerlo, ho avuto grandi difficoltà a ritrovare una regolarità.
Un’altra cosa che ho notato è che separare la dimensione accademica da quella sociale per me è difficile. In un certo senso, studiare e partecipare alle lezioni era già una forma di socialità: ascoltare un professore mi dava un senso di connessione. Però, quando l’interazione sociale si sganciava dallo studio, sentivo di perdere tempo e di mettere a rischio il mio equilibrio. Non riesco a funzionare senza una struttura precisa: se la mia routine si spezza, non riesco più ad andare avanti.
Lezioni, esami e ambienti universitari
Seguire le lezioni, soprattutto nei primi anni, è stata una guerra. Non sapevo di avere sensibilità sensoriali, quindi stare tre ore sotto luci forti mi faceva lacrimare gli occhi in continuazione. Dovevo sforzarmi di guardare il professore con gli occhi pieni di lacrime, e a volte mi sentivo così nervosa che temevo di avere un meltdown in mezzo alla classe. Anche gli spazi affollati e rumorosi erano un problema, ma non avevo ancora gli strumenti per gestirli.
Gli esami, invece, mi mettevano in difficoltà per via delle dinamiche sociali che si creavano intorno. Dovevi presentarti la mattina presto e aspettare tutto il giorno di essere chiamata, in mezzo a gruppi di persone che parlavano, si confrontavano, si scambiavano informazioni. Questo, più che l’esame in sé, mi mandava in tilt. In alcuni casi, mi sono trovata a stare meglio con i professori che con i miei colleghi: preferivo fare pausa parlando con il docente piuttosto che con gli altri studenti, perché non riuscivo a separare il mio io accademico da quello sociale.
A livello pratico, iscriversi agli appelli era gestibile, anche se avrei preferito che fosse tutto più chiaro e strutturato. Il sistema informatico mi creava stress: la comunicazione digitale aggiunge un livello di distanza che rende tutto più difficile da decifrare. Preferirei avere un contatto più diretto, sapere con certezza a chi rivolgersi per ogni necessità, senza dover interpretare informazioni sparse.
Burocrazia e difficoltà amministrative
Affrontare la burocrazia universitaria è stata una delle cose più complesse. Non avevo idea di come funzionasse il sistema, e senza mia madre non sarei riuscita a iscrivermi. È come se mi mancasse l’immagine mentale di come certe cose dovrebbero andare. Per me non è scontato capire il funzionamento delle procedure amministrative: se nessuno me lo spiega, io non so dove iniziare.
Uno degli episodi più frustranti è stato quello della borsa di studio. Il primo anno l’avevo ottenuta automaticamente perché avevo ottimi voti, e per me è stato un grande motivo di orgoglio. Ma il secondo anno, per un errore burocratico, non mi è stata rinnovata.
Ansia e gestione del tempo
L’ansia ha sempre fatto parte della mia esperienza scolastica, e all’università è diventata ancora più forte. La gestione del tempo è il mio principale fattore di stress, perché il tempo è un criterio di eccellenza. Il sistema si basa su scadenze fisse, e se non riesco a rispettarle, mi sento inadeguata. Non riesco a gestire più cose contemporaneamente: per me è impensabile preparare due esami insieme, e quando sono stata costretta a farlo, il mio livello di ansia è schizzato alle stelle.
Ironia della sorte, se non ci fossero scadenze rigide, probabilmente mi laureerei prima. Il problema non è il carico di lavoro, ma l’idea che ci sia una data imposta dall’esterno. Se potessi scegliere i miei tempi senza pressioni, riuscirei a gestire tutto in modo molto più efficiente.
Prima e dopo la diagnosi
Prima della diagnosi non possedevo alcun tipo di strategia funzionale se non seguire alla lettera il regolamento e le scadenze. Per quanto riguarda il regolamento, proprio il mio prenderlo alla lettera ha reso difficile la comunicazione con la segreteria e creato fraintendimenti. Per quanto riguarda invece le scadenze, l’ansia cresceva esponenzialmente non appena commettevo errori, come per le scadenze dei contributi, o quando capitavano fatalità, come per il COVID-19. La rottura con la routine universitaria che mi ero costruita e il perdere il ritmo con cui sostenevo gli esami mi ha portata al “fuori corso”, il che non ha fatto che aggravare l’ansia e la depressione.
Con la diagnosi ho scoperto nuovi modi di socializzare, per esempio attraverso il gruppo di Auto Mutuo Aiuto. Ho potuto chiedere informazioni alla segreteria e ai professori. Ho avuto la possibilità di richiedere la mediazione di un tutor universitario e di ricevere sostegno da professionist* preparat*.
Se avessi avuto la diagnosi prima di iniziare il percorso accademico, lo avrei intrapreso più consapevole dei miei limiti sensoriali e sociali. Sarei stata in grado di tutelarmi dalle luci troppo forti o dagli spazi affollati, ma anche dalle richieste sociali a cui mi sentivo chiamata ad adempiere, cercando in tutti i modi di presentarmi esageratamente disponibile e piacevole agli altri studenti pur di non far trapelare le parti del mio funzionamento che avevo imparato solamente a nascondere.
Ho perso molto tempo a forzarmi a stare nel disagio e nella sofferenza. Dividevo nettamente il mio mondo personale da quello altrui, non avevo mai potuto davvero imparare a trovare un autentico contatto con gli altri prima della diagnosi. Il lavoro è stato duro e tortuoso, ma ora sono capace e libera di trovare e concedermi modalità, tempi e spazi necessari alla mia crescita personale, sociale, intellettuale.
Supporto e cosa migliorare
Il supporto più grande l’ho trovato nei professori con cui ho avuto un buon rapporto e nel gruppo di studenti autistici. Sapere di non essere sola, che anche altri vivono le mie stesse difficoltà, mi ha dato la forza di non abbandonare gli studi. Questo senso di appartenenza e di riconoscimento è stato essenziale per farmi tornare in università dopo il Covid.
Cosa cambierei dell’università? Più chiarezza nelle informazioni. Vorrei un sistema più strutturato, con riferimenti chiari, magari con nomi e volti associati a ogni ufficio. Meno rigidità nelle scadenze, per permettere a chi ha un funzionamento diverso di non essere penalizzato. Più consapevolezza su come funziona il cervello autistico, con linee guida chiare per chi deve preparare una tesi o un esame.
L’università dovrebbe essere un luogo che sostiene gli studenti, non una lotta continua per adattarsi a un sistema che non tiene conto della diversità. Sapere di essere visti e riconosciuti può fare la differenza tra riuscire a concludere un percorso o sentirsi costretti ad abbandonarlo.
Qualche consiglio per le persone autistiche che stanno per iniziare o stanno già frequentando
Cercate una rete di sostegno che agevoli la gestione della vita universitaria e che aiuti ad evitare l’isolamento. Dedicatevi completamente ai vostri interessi mantenendo però il costante contatto con figure professionali e amiche appartenenti alla realtà universitaria.
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